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Rischio tsunami? Anche in Italia, meglio averne consapevolezza e prepararsi

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La Dire ne ha parlato con Alessandro Amato, geologo, sismologo, già direttore del Centro Nazionale Terremoti dell’Ingv e ora responsabile del Centro Allerta Tsunami

ROMA – Quando si parla di tsunami il pensiero va al Giappone, al Pacifico, pensiamo al grande pittore e incisore Hokusai, alle sue rappresentazioni come ‘La grande onda di Kanagawa’, quando va bene, o a tragedie come il terremoto e maremoto dell’Oceano Indiano del 2004. Invece si tratta di qualcosa che ci riguarda da vicino.

Un evento che anche se non ha le sembianze del ‘cigno nero’, l’onda catastrofica che ci porta alla mente la devastazione di Sumatra o del Tohoku in Giappone, potrebbe essere un meno raro ‘rinoceronte grigio’ con sembianze più modeste ma sempre in grado di infliggere un duro colpo in termini di danni al tessuto economico delle coste, sempre più antropizzate, esigendo comunque un prezzo in vite umane. E allora dovremmo occuparcene, e investire di più nella prevenzione, dotando gli scienziati degli strumenti necessari, e nell’educazione delle persone, agendo sulle comunità costiere esposte ai rischi, per aumentare la loro consapevolezza e renderle ‘tsunami ready’. La Dire ne parla con Alessandro Amato, geologo, sismologo, già direttore del Centro Nazionale Terremoti dell’Ingv e ora responsabile del Centro Allerta Tsunami dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (Cat-Ingv).

Uno tsunami, un maremoto, è un fenomeno di casa dalle nostre parti. “Nel Mediterraneo sono documentati oltre 200 eventi di maremoto nella storia, ce ne sono tanti, alcuni sono ben noti, perché più recenti e studiati, altri antichi come l’esplosione di Thera, di Santorini, molti secoli avanti Cristo e un grande terremoto di Creta nel 365 dopo Cristo, documentato perché lo tsunami generato ha distrutto Alessandria d’Egitto- spiega Amato- ce ne sono stati tanti dovuti per oltre l’80% da terremoti e in parte da vulcani. Stromboli è un caso abbastanza noto perché vi è stato uno tsunami ben documentato nel 2002 e anche nell’estate 2019 due casi dovuti al collasso della Sciara del fuoco, che hanno causato tsunami, anche se più piccoli di quello del 2002′ che ‘ha fatto parecchi danni, e per fortuna era dicembre e non c’erano turisti”.

Facciamo un passo indietro: cos’è uno tsunami?

“Uno tsunami è una serie di onde diverse da quelle legate al vento, hanno una lunghezza maggiore, e sono dovute genericamente a variazioni improvvise dell’altezza della colonna d’acqua”, spiega lo scienziato. Si genera quindi “un treno di onde marine che possono viaggiare per migliaia di chilometri e arrivare vicino alle coste, e prima di arrivare non sono mai grandi, alte, ma lunghe, anche decine di chilometri. In mare aperto nemmeno ci se ne accorge, ma vicino alla costa l’altezza del mare diminuisce, l’energia si concentra nella massa d’acqua, l’onda si alza e si accorcia, rallenta ma diventa molto pericolosa perché può essere alta diversi metri, anche decine di metri e viaggiare comunque velocemente, intorno ai 40 km all’ora”.

I fenomeni che possono generare uno tsunami ‘sono numerosi, il più frequente sono i terremoti, sottomarini o vicini alle coste, abbastanza forti e superficiali da deformare il fondo del mare o dell’oceano’, spiega ancora Amato. Poi ci sono le frane, fuori dal mare “collassi di un versante come capita nei fiordi in Norvegia o con il ghiaccio nelle zone artiche e antartiche, o sottomarine, qualche corpo instabile che per qualche motivo, ad esempio un terremoto, si muove e se ha grandezza e velocità sufficiente crea deformazione nell’acqua”. Poi ci sono “anche i meteo tsunami dovuti a variazioni nella pressione atmosferica improvvise, abbastanza tipici in Adriatico e molte regione del Mediterraneo, e sono più piccoli, i più grandi sono quelli sismici”, prosegue l’esperto. Ma uno tsunami “potrebbe addirittura avvenire, ed è geologicamente documentato, per l’impatto di un meteorite”.

L’80% e oltre degli tsunami è causato quindi da terremoti, e in Italia come siamo messi?

“In Italia, purtroppo o per fortuna, a secondo dei punti di vista, la maggior parte dei terremoti avviene lungo le catene montuose, lungo l’Appennino, le Alpi, il Subalpino, lontani dal mare– spiega l’esperto- Il nostro limite di placca, che in Giappone è al largo delle coste, dove c’è la fossa dell’Oceano, cosa che rende gli tsunami molto frequenti, da noi buona parte passa nella catena montuosa e non crea tsunami. Ci sono però altre faglie attive e sono quella del Mar Ligure, di cui si sa molto poco, ma soprattutto quelle del sud Italia”. Ad esempio “c’è la faglia della zona dello Stretto di Messina, nota per il grande terremoto del 1908 che fece almeno 80mila vittime e forse duemila per uno tsunami generato dal terremoto stesso- segnala Amato. “C’è poi tutta la zona della Sicilia orientale, ionica, la zona dell’arco calabro, quindi lo Ionio, che va dalla Sicilia orientale alla Puglia. Lì c’è una zona molto conosciuta dai geologi: dopo molte campagne a mare si sa che è una zona attiva, con faglie attive, ma non abbiamo tracce recenti di eventi importanti. La discussione verte sul fatto se sia una zona potenzialmente in grado di fare terremoti di magnitudo 7 o 8 tsunamigenici’.

Ma non finisce qui: ‘In Puglia, anche se è cosa poco nota, ci sono tracce di tsunami importanti: nel 1627 al Gargano, nel 1730, nel 1743 nel Salento, diversi eventi di maremoti, regressione del mare e via dicendo. Sono poco noti, e in uno studio che abbiamo fatto sulla percezione del rischio tsunami in Calabria e Puglia abbiamo rilevato grandi differenze- avverte Amato- In Calabria, forse perché ogni tanto viene ricordato l’evento del 1908 c’è una maggiore consapevolezza del rischio; in Puglia dove non si sentono spesso i terremoti e gli tsunami più recenti sono di quasi 300 anni fa si ritiene che non vi sia un pericolo, cosa purtroppo non vera. E invece di fronte alla Ionio, dalla parte delle isole ioniche dell’arco ellenico, abbiamo le maggiori faglie del Mediterraneo, quelle del terremoto di Creta, che potrebbe fare grandi tsunami e arrivare in 30-50 minuti anche in Italia’.

Ecco, una situazione con vari livelli di rischio, più noti e meno noti, più o meno percepiti. E Per badare a noi, in un certo senso, c’è la struttura di cui Alessandro Amato è responsabile. “Il Centro Allerta Tsunami dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia opera dal 2013 sperimentalmente e dal 2016 in maniera operativa– spiega lo scienziato- Mandiamo messaggi di allerta quando c’è un terremoto potenzialmente tsunamigenico, quindi quando è abbastanza forte, quando è in mare, è superficiale e così via. I messaggi vanno alla nostra Protezione civile che poi li smista con un sistema automatico di invio al sistema capillare di protezione civile. Allo stesso tempo mandiamo lo stesso messaggio di allerta a numerosi Paesi del Mediterraneo, perché la nostra area di interesse è estesa da Gibilterra al Libano e all’Egitto. I messaggi partono appena c’è un terremoto di una certa energia e appena riusciamo rapidamente a determinarne epicentro, profondità e magnitudo. Questo avviene con le prime stime in pochissimi minuti, ma bisogna aspettare un pochino per essere sicuri dei dati ed evitare falsi allarmi, quindi le allerte partono in 7-8 minuti, entro 10 minuti”. Questa “è la prima fase, c’è un terremoto, non si sa se ha generato uno tsunami e si fa l’allerta preventiva, perché altrimenti non si ha tempo per far nulla- segnala Amato- Poi si vanno a guardare i dati delle stazioni mareografiche nel Mediterraneo. Quelle in Italia sono della rete mareografica nazionale dell’Ispra e negli altri Paesi altre reti collegate con il nostro centro, le consultiamo in tempo reale per verificare se c’è qualche anomalia. Quindi o confermiamo uno tsunami in corso oppure dopo un tempo sufficiente, un’ora se non due, cancelliamo l’allerta. Lo dobbiamo fare però con cautela, perché purtroppo i dati sono scarsi, non abbiamo molti mareografi nel Mediterraneo, solo qualche decina, quindi dobbiamo essere sicuri che non ci sia davvero uno tsunami in corso. Sarebbe pericoloso ritirare un’allerta con un evento in corso: è accaduto in Cile nel 2010 con un grande terremoto, allerta ritirata ma poi lo tsunami è arrivato e ci sono stati grossi problemi’.

Ecco, per una maggiore capacità predittiva, di lettura dei fenomeni, “servirebbero mareografi e boe, boe ‘tsunameter’, boe di alto mare che hanno un sensore di pressione che rileva ogni variazione della colonna d’acqua, anche di qualche centimetro e possono confermare lo tsunami in corso- avverte l’esperto-. Nel Mediterraneo ancora non ne esistono perché queste boe sono costose e nessuno ci ha investito, sinora, ci stiamo provando ma ancora non ci siamo riusciti”.

Un problema è certamente quello della percezione del rischio, che se non è sufficiente non aiuta a prepararsi, e nemmeno a fare le scelte giuste a livello di decisori. Ma i rischi ci sono. “Si pensa sempre che lo tsunami sia come quello Tohoku del 2011, o quello dell’Oceano Indiano del 2004, quello di Sumatra, cose enormi con terremoti di magnitudo 9 e faglie di migliaia di chilometri- dice Amato- Ma quello è il ‘cigno nero’ che si dovrebbe tenere sempre in considerazione, ma poi ci sono oltre ai ‘cigni neri’ anche i ‘rinoceronti grigi’, gli eventi più frequenti, meno catastrofici ma molto pericolosi. Cito solo l’ultimo: sull’isola greca di Samos il 30 ottobre 2020, pochi mesi fa, c’è stato un terremoto di magnitudo 7 – che nel Mediterraneo può avvenire in molte zone – che ha causato uno tsunami con onde di un paio di metri come altezza, forse qualcosa di più. La lunghezza delle onde ha però fatto sì che si siano riversate nella stessa Samos e a Smirne, in Turchia, lì di fronte, delle grandi masse d’acqua che hanno portato via auto, frigoriferi, masserizie, con anche un morto sulla sponda turca. Sono eventi meno rari ma più frequenti e più probabili. Bisogna tenere conto- sottolinea lo scienziato- che un’onda di un metro non è un’onda del mare, ma un’onda molto lunga, più simile a un torrente in piena, con una velocità che arriva a 40-50 chilometri orari su una spiaggia e porta via qualsiasi cosa, e pensiamo a cosa potrebbe accadere a bambini, persone anziane, disabili che non potrebbero scappare, se non avvisati per tempo”.

Insomma, uno pensa che certi disastri non avverranno mai, perlomeno in forma così grave, e “essendo lo tsunami un fenomeno raro, e non essendo prioritario rispetto ai terremoti, o alle frane e alle inondazioni che ad esempio avvengono ogni anno, viene un po’ accantonato come rischio, come non ci riguardi, sperando non accada, ma prima o poi qualcosa capiterà. Pensiamo a cosa è capitato con un fenomeno altrettanto inatteso e catastrofico come la pandemia”, avverte Amato. E potrebbe essere un evento doloroso: “rispetto agli eventi storici le cose sono molto peggiorate. La popolazione costiera è aumentata in maniera enorme, e non solo la popolazione, anche le industrie, le attività produttive, commerciali- ricorda Amato- C’è tanto sulle coste esposto a questo rischio”. Tutto sommato, “per le persone il rischio tsunami è affrontabile: non possiamo essere sicuri, perché oggi l’allerta non raggiunge il cittadino in maniera diretta, ma una volta che ci fosse, salvo casi estremi nei quali l’onda arriva in tre o quattro minuti, ciò eviterebbe il grosso del rischio, sempre che non ci si fermi a raccogliere le conchiglie lasciate scoperte dal mare che si ritira o a fare un video naturalmente…”, avverte lo scienziato.

Insomma, ‘con una buona educazione le persone devono sapere se si sente un terremoto vicino al mare lungo e forte si deve andar via. Ci si può mettere in salvo, se si sa come fare’, spiega. Qualcosa si sta facendo, per creare questa educazione: ‘ importante ricordare che nel 2018 è stato avviato con una direttiva del capo dipartimento della Protezione civile un aggiornamento dei piani di protezione civile per il rischio maremoto nei comuni costieri, una cosa che però ancora non viene fatta, anche a causa della pandemia, certo’, segnala Amato. ‘È però importante, perché si deve scappare ma si deve sapere dove andare, vanno indicate le vie di fuga, le aree di raccolta e così via”. Intanto, però, “stiamo perseguendo questo programma che si chiama ‘Tsunami ready’ sperimentato in altri mari che serve a coinvolgere l’intera comunità- prosegue Amato. Stiamo lavorando con tre comuni pilota italiani, uno nel Lazio, Minturno, uno in Calabria, Palmi, e uno in Sicilia, Pachino-Marzamemi, per arrivare al riconoscimento della ‘patente’ di ‘tsunami ready’, che vuol dire che sono state messe in campo tutte le contromisure possibili. È un programma Unesco, è importante- conclude Amato- speriamo di poterla portare in questi primi comuni e allargarla a tutti i comuni costieri’.

Facciamo un passo indietro: cos’è uno tsunami?

“Uno tsunami è una serie di onde diverse da quelle legate al vento, hanno una lunghezza maggiore, e sono dovute genericamente a variazioni improvvise dell’altezza della colonna d’acqua”, spiega lo scienziato. Si genera quindi “un treno di onde marine che possono viaggiare per migliaia di chilometri e arrivare vicino alle coste, e prima di arrivare non sono mai grandi, alte, ma lunghe, anche decine di chilometri. In mare aperto nemmeno ci se ne accorge, ma vicino alla costa l’altezza del mare diminuisce, l’energia si concentra nella massa d’acqua, l’onda si alza e si accorcia, rallenta ma diventa molto pericolosa perché può essere alta diversi metri, anche decine di metri e viaggiare comunque velocemente, intorno ai 40 km all’ora”.

I fenomeni che possono generare uno tsunami ‘sono numerosi, il più frequente sono i terremoti, sottomarini o vicini alle coste, abbastanza forti e superficiali da deformare il fondo del mare o dell’oceano’, spiega ancora Amato. Poi ci sono le frane, fuori dal mare “collassi di un versante come capita nei fiordi in Norvegia o con il ghiaccio nelle zone artiche e antartiche, o sottomarine, qualche corpo instabile che per qualche motivo, ad esempio un terremoto, si muove e se ha grandezza e velocità sufficiente crea deformazione nell’acqua”. Poi ci sono “anche i meteo tsunami dovuti a variazioni nella pressione atmosferica improvvise, abbastanza tipici in Adriatico e molte regione del Mediterraneo, e sono più piccoli, i più grandi sono quelli sismici”, prosegue l’esperto. Ma uno tsunami “potrebbe addirittura avvenire, ed è geologicamente documentato, per l’impatto di un meteorite”.

L’80% e oltre degli tsunami è causato quindi da terremoti, e in Italia come siamo messi?

“In Italia, purtroppo o per fortuna, a secondo dei punti di vista, la maggior parte dei terremoti avviene lungo le catene montuose, lungo l’Appennino, le Alpi, il Subalpino, lontani dal mare– spiega l’esperto- Il nostro limite di placca, che in Giappone è al largo delle coste, dove c’è la fossa dell’Oceano, cosa che rende gli tsunami molto frequenti, da noi buona parte passa nella catena montuosa e non crea tsunami. Ci sono però altre faglie attive e sono quella del Mar Ligure, di cui si sa molto poco, ma soprattutto quelle del sud Italia”. Ad esempio “c’è la faglia della zona dello Stretto di Messina, nota per il grande terremoto del 1908 che fece almeno 80mila vittime e forse duemila per uno tsunami generato dal terremoto stesso- segnala Amato. “C’è poi tutta la zona della Sicilia orientale, ionica, la zona dell’arco calabro, quindi lo Ionio, che va dalla Sicilia orientale alla Puglia. Lì c’è una zona molto conosciuta dai geologi: dopo molte campagne a mare si sa che è una zona attiva, con faglie attive, ma non abbiamo tracce recenti di eventi importanti. La discussione verte sul fatto se sia una zona potenzialmente in grado di fare terremoti di magnitudo 7 o 8 tsunamigenici’.

Ma non finisce qui: ‘In Puglia, anche se è cosa poco nota, ci sono tracce di tsunami importanti: nel 1627 al Gargano, nel 1730, nel 1743 nel Salento, diversi eventi di maremoti, regressione del mare e via dicendo. Sono poco noti, e in uno studio che abbiamo fatto sulla percezione del rischio tsunami in Calabria e Puglia abbiamo rilevato grandi differenze- avverte Amato- In Calabria, forse perché ogni tanto viene ricordato l’evento del 1908 c’è una maggiore consapevolezza del rischio; in Puglia dove non si sentono spesso i terremoti e gli tsunami più recenti sono di quasi 300 anni fa si ritiene che non vi sia un pericolo, cosa purtroppo non vera. E invece di fronte alla Ionio, dalla parte delle isole ioniche dell’arco ellenico, abbiamo le maggiori faglie del Mediterraneo, quelle del terremoto di Creta, che potrebbe fare grandi tsunami e arrivare in 30-50 minuti anche in Italia’.

Ecco, una situazione con vari livelli di rischio, più noti e meno noti, più o meno percepiti. E Per badare a noi, in un certo senso, c’è la struttura di cui Alessandro Amato è responsabile. “Il Centro Allerta Tsunami dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia opera dal 2013 sperimentalmente e dal 2016 in maniera operativa– spiega lo scienziato- Mandiamo messaggi di allerta quando c’è un terremoto potenzialmente tsunamigenico, quindi quando è abbastanza forte, quando è in mare, è superficiale e così via. I messaggi vanno alla nostra Protezione civile che poi li smista con un sistema automatico di invio al sistema capillare di protezione civile. Allo stesso tempo mandiamo lo stesso messaggio di allerta a numerosi Paesi del Mediterraneo, perché la nostra area di interesse è estesa da Gibilterra al Libano e all’Egitto. I messaggi partono appena c’è un terremoto di una certa energia e appena riusciamo rapidamente a determinarne epicentro, profondità e magnitudo. Questo avviene con le prime stime in pochissimi minuti, ma bisogna aspettare un pochino per essere sicuri dei dati ed evitare falsi allarmi, quindi le allerte partono in 7-8 minuti, entro 10 minuti”. Questa “è la prima fase, c’è un terremoto, non si sa se ha generato uno tsunami e si fa l’allerta preventiva, perché altrimenti non si ha tempo per far nulla- segnala Amato- Poi si vanno a guardare i dati delle stazioni mareografiche nel Mediterraneo. Quelle in Italia sono della rete mareografica nazionale dell’Ispra e negli altri Paesi altre reti collegate con il nostro centro, le consultiamo in tempo reale per verificare se c’è qualche anomalia. Quindi o confermiamo uno tsunami in corso oppure dopo un tempo sufficiente, un’ora se non due, cancelliamo l’allerta. Lo dobbiamo fare però con cautela, perché purtroppo i dati sono scarsi, non abbiamo molti mareografi nel Mediterraneo, solo qualche decina, quindi dobbiamo essere sicuri che non ci sia davvero uno tsunami in corso. Sarebbe pericoloso ritirare un’allerta con un evento in corso: è accaduto in Cile nel 2010 con un grande terremoto, allerta ritirata ma poi lo tsunami è arrivato e ci sono stati grossi problemi’.

Ecco, per una maggiore capacità predittiva, di lettura dei fenomeni, “servirebbero mareografi e boe, boe ‘tsunameter’, boe di alto mare che hanno un sensore di pressione che rileva ogni variazione della colonna d’acqua, anche di qualche centimetro e possono confermare lo tsunami in corso- avverte l’esperto-. Nel Mediterraneo ancora non ne esistono perché queste boe sono costose e nessuno ci ha investito, sinora, ci stiamo provando ma ancora non ci siamo riusciti”.

Un problema è certamente quello della percezione del rischio, che se non è sufficiente non aiuta a prepararsi, e nemmeno a fare le scelte giuste a livello di decisori. Ma i rischi ci sono. “Si pensa sempre che lo tsunami sia come quello Tohoku del 2011, o quello dell’Oceano Indiano del 2004, quello di Sumatra, cose enormi con terremoti di magnitudo 9 e faglie di migliaia di chilometri- dice Amato- Ma quello è il ‘cigno nero’ che si dovrebbe tenere sempre in considerazione, ma poi ci sono oltre ai ‘cigni neri’ anche i ‘rinoceronti grigi’, gli eventi più frequenti, meno catastrofici ma molto pericolosi. Cito solo l’ultimo: sull’isola greca di Samos il 30 ottobre 2020, pochi mesi fa, c’è stato un terremoto di magnitudo 7 – che nel Mediterraneo può avvenire in molte zone – che ha causato uno tsunami con onde di un paio di metri come altezza, forse qualcosa di più. La lunghezza delle onde ha però fatto sì che si siano riversate nella stessa Samos e a Smirne, in Turchia, lì di fronte, delle grandi masse d’acqua che hanno portato via auto, frigoriferi, masserizie, con anche un morto sulla sponda turca. Sono eventi meno rari ma più frequenti e più probabili. Bisogna tenere conto- sottolinea lo scienziato- che un’onda di un metro non è un’onda del mare, ma un’onda molto lunga, più simile a un torrente in piena, con una velocità che arriva a 40-50 chilometri orari su una spiaggia e porta via qualsiasi cosa, e pensiamo a cosa potrebbe accadere a bambini, persone anziane, disabili che non potrebbero scappare, se non avvisati per tempo”.

Insomma, uno pensa che certi disastri non avverranno mai, perlomeno in forma così grave, e “essendo lo tsunami un fenomeno raro, e non essendo prioritario rispetto ai terremoti, o alle frane e alle inondazioni che ad esempio avvengono ogni anno, viene un po’ accantonato come rischio, come non ci riguardi, sperando non accada, ma prima o poi qualcosa capiterà. Pensiamo a cosa è capitato con un fenomeno altrettanto inatteso e catastrofico come la pandemia”, avverte Amato. E potrebbe essere un evento doloroso: “rispetto agli eventi storici le cose sono molto peggiorate. La popolazione costiera è aumentata in maniera enorme, e non solo la popolazione, anche le industrie, le attività produttive, commerciali- ricorda Amato- C’è tanto sulle coste esposto a questo rischio”. Tutto sommato, “per le persone il rischio tsunami è affrontabile: non possiamo essere sicuri, perché oggi l’allerta non raggiunge il cittadino in maniera diretta, ma una volta che ci fosse, salvo casi estremi nei quali l’onda arriva in tre o quattro minuti, ciò eviterebbe il grosso del rischio, sempre che non ci si fermi a raccogliere le conchiglie lasciate scoperte dal mare che si ritira o a fare un video naturalmente…”, avverte lo scienziato.

Insomma, ‘con una buona educazione le persone devono sapere se si sente un terremoto vicino al mare lungo e forte si deve andar via. Ci si può mettere in salvo, se si sa come fare’, spiega. Qualcosa si sta facendo, per creare questa educazione: ‘ importante ricordare che nel 2018 è stato avviato con una direttiva del capo dipartimento della Protezione civile un aggiornamento dei piani di protezione civile per il rischio maremoto nei comuni costieri, una cosa che però ancora non viene fatta, anche a causa della pandemia, certo’, segnala Amato. ‘È però importante, perché si deve scappare ma si deve sapere dove andare, vanno indicate le vie di fuga, le aree di raccolta e così via”. Intanto, però, “stiamo perseguendo questo programma che si chiama ‘Tsunami ready’ sperimentato in altri mari che serve a coinvolgere l’intera comunità- prosegue Amato. Stiamo lavorando con tre comuni pilota italiani, uno nel Lazio, Minturno, uno in Calabria, Palmi, e uno in Sicilia, Pachino-Marzamemi, per arrivare al riconoscimento della ‘patente’ di ‘tsunami ready’, che vuol dire che sono state messe in campo tutte le contromisure possibili. È un programma Unesco, è importante- conclude Amato- speriamo di poterla portare in questi primi comuni e allargarla a tutti i comuni costieri’.

fonte «Agenzia DiRE» e l’indirizzo «www.dire.it». Roberto Antonini