Era ricoverato all’ospedale San Raffaele di Milano. Aveva 54 anni
ROMA – “Il mio lavoro non è portare tutti qui o lì. Non sono un tassista. Gestisco gente di cui sono orgogliosissimo che non è mai uscita dalla provincia“. Nessuno poteva parlare davvero di Mino Raiola senza essere Mino Raiola. Perché mettere in fila le definizioni, trovarne una aderente all’enorme personaggio che indossava, era un esercizio quasi esoterico. Per cui lui, una volta, dettò a GQ il suo ritratto, quasi un haiku: “Le cose normali le fanno tutti. Io muovo l’aria. Muovo i sogni. E ogni tanto faccio incazzare qualcuno“.
Il super-agente “cattivo” è morto dopo essere risorto almeno un paio di volte, come aveva vissuto, rinfacciandolo via social a tutti con la tigna e gli spigoli dell’uomo dell’ultima parola. Pure “morte”, alla fine, se l’è scritta da solo, dopo averla smentita da un letto del San Raffaele a modo suo: “Evidentemente so anche risorgere”.
Cinicamente coerente con l’ambivalenza che governava meglio di tutti, si faceva raccontare come il “cameriere che diventò miliardario”, che per alcuni faceva il pizzaiolo ma che invece faceva proprio il cameriere. E ci teneva, eh. Quel refuso non gli era mai andato giù: orgogliosamente cameriere, al servizio di nessuno.
Aveva impiegato una vita ad alimentare la superiorità altrui, ostentando le sue forme – corto, chiatto – e il dialetto all’occorrenza, era una distanza sindacale. Un po’ all’attacco, un po’ per autodifesa. Parlava un idioma laterale e parallelo. Un esperanto intellegibile da tutti.
“Parla otto lingue, tutte male“, scrivevano. E lui replicava: “No, parlo molte lingue, la peggiore è l’italiano“. Volevano renderlo più sguaiato di quanto non fosse, inchiodato all’immagine dell’emigrato rozzo di Verdone, quello che torna in Italia a votare e gli rubano i pezzi dell’Alfasud in autostrada. Il cafone arricchito, il nababbo che per avidità corrompeva le carriere di calciatori che invece – angioletti – avrebbero baciato maglie per l’eternità. Raiola, il ruba-bandiere. Un gioco di ruolo, nel quale era un fuoriclasse assoluto. Faceva affari con tutti, ed era rispettato da tutti. Temuto anche, ma quello era un santino artefatto, tipo “non provarci, con me non attacca”.
Una leva di posizione nelle trattative. “Il giocatore tal dei tali è passato a Raiola” valeva una minaccia in società, una garanzia di ricchezza al portatore. Perché era il re del mercato, un lobbista contro le lobby. Uno che aveva preso a dire di tutto, in faccia, alla Fifa “comunista”. Un uomo contro un’istituzione mondiale, alla pari. E ogni volta che chiudeva un contratto, al rialzo, in scalata, sempre uno zero in più, attorno gli si formava un’aura di finto stupore: la morale, lo stigma, come se non fossero tutti allo stesso tavolo per la stessa cosa.
La fenomenologia da mercante di pulci costosissime era funzionale alla sua stessa carriera, lo toglieva dal fuorigioco dell’imbarazzo. Trattatemi così e più male vi farò. Invece chi era ammesso alla sua cerchia l’amava chiamandolo affettuosamente “pezzo di merda”.
Zeman, per esempio, al cui Foggia consegnò Bryan Roy: “Zdenek, tu di calcio non capisci veramente un cazzo”, gli diceva. Raiola ha avuto tanti campioni in scuderia, ma il suo brand era Zlatan. Ibra. Che per riflesso tramandava la tradizione orale del loro incontro fulminante e poi di un viaggio a braccetto, tra pallone e finanza: 9 tappe per 9 commissioni.
Un patrimonio, anche di aneddoti. “In jeans e T-shirt Nike e con quella pancia enorme, sembrava uno dei Soprano. Dovrebbe essere un agente quella specie di gnomo ciccione? E quando ordinammo cosa credete, che arrivò un piattino di sushi con avocado e gamberetti? No, arrivò una valanga di roba, cibo per cinque, e lui divorò tutto come un dannato”. Così Ibra descrisse la loro prima volta”. Raiola ci teneva a colorare la sua vita col pantone del folklore: “Vivevamo con uno zio panettiere e se togli la parte criminale, la casetta sembrava il set del ‘Padrino’. Ragù, salami, spettacolini. Il periodo più felice della mia vita”. Il resto è stato tutto un movimento di sogni. Prima di morire davvero è morto almeno due volte solo per poter ridicolizzare i coccodrilli precoci. Le cose normali, no: “quelle le fanno gli altri”.
fonte Agenzia DIRE e l’indirizzo www.dire.it